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SERGIO GILARDINO
“La prima chitarra

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Vercelli - foto andrea cherchi74.jpg

“A l’é  mach na folairà, da sì a chèich di a-j passa” 

(È solo un capriccio, da qui a qualche giorno gli passerà). 

Ma, al contrario, più i giorni passavano e più mio fratello, anche se sfinito dal lavoro, persisteva in quella sua decisione di imparare a suonare la chitarra. La mamma, per farlo contento, si rassegnò e andammo tutti e tre insieme dal solo negozio di strumenti e di spartiti musicali a Vercelli, il Belli, in via Verdi, proprio dirimpetto al cinema omonimo. Era una stanza abbastanza grande, con violini, mandolini, trombe e sassofoni appesi ad

una   rastrelliera.   C’era   una   sola   chitarra,   anche   lei   appesa   ad   una cordicella. 

Mia mamma ebbe subito il sentore che “ës monsù Belli” avrebbe chiesto uno sproposito per quella povera vittima impiccata alla corda della cupidigia commerciale. “

 

Vàire ch’a costarìa na ghitara, monsù?”

( quanto costerebbe una chitarra? ). 

​

Da notare: non aveva detto “quella chitarra lì”, ma, più vagamente, “una chitarra”, per dare ampio spazio alla gamma dei prezzi, da quello più caro a quello più abbordabile. Il signor Belli, scaltro ma, tutto sommato, onesto commerciante, rispose: “Per quella lì quindicimila lire”. Era quasi lo stipendio mensile di mio fratello a quell’epoca. 

La mamma ci prese tutt’e due energicamente per il braccio e ci spinse   fuori   in   fretta  e   furia   dal   negozio,   non   senza   essersi   lasciate scappare due parole all’indirizzo del povero Belli: 

 

“Ma che làder!” 

(Ma che ladro! ). 

Etichetta Pasqualon

Finalmente il giorno per andare a prendere lo strumento arrivò. La sera prima l’agitazione di mio fratello era arrivata a tal punto che a cena si fece andare il boccone per traverso. La mamma gli dava una pacca sulla schiena e una sulla nuca, per abbinare terapia e punizione nella stessa manovra: 

 

“Pasij-te, i të smije un ëd coj ch’a j’eu pòrto an via Trin...”   

(Calmati, assomigli ad uno di quelli che ricoverano in via Trino [l’ospedale psichiatrico] ).   

 

La   mattina   dopo   (Angelo   non   aveva   chiuso occhio tutta la notte e non aveva fatto colazione), una domenica, alle nove in punto, Angelo era davanti alla porta di Pasqualon. 

La custodia,compresa nel prezzo, non era ancora pronta. Il liutaio, vista l’agitazione del futuro virtuoso, gliela avvolse in carta cerata. Mio fratello abbracciò il tutto,   come   se   fosse   stata   una   persona   tanto   amata,   e   si   affrettò   a ritornare a casa.

 

Non erano ancora le dieci. Mamma già era al lavoro, seduta davanti ad un tavolino con ammucchiate sopra varie maglie da cucire, io – con tanto di squadre di legno – ultimavo un disegno tecnico per l’indomani.

 

Abitavamo allora in Piazza Cavour, al numero 10, al terzo piano.

Avevamo due balconi che si affacciavano sulla storica piazza ed un lungo balcone sul retro. Le scale erano quelle  a chiocciola  della medievale Torre dell’Angelo. Mi rifugiavo lassù per leggere e rileggere i romanzi di Salgari e di Verne: dalla sua cima si vedevano tutti i tetti della città e poi, tutt’attorno, le risaie e i campi che la circondavano.

 

Improvvisamente sentiamo un urlo, fortissimo, quasi un grido di straziante dolore. Io ho alzato la testa dal disegno e ho incrociato lo sguardo della mamma, che si stava già alzando dalla sedia su cui sedeva quando lavorava. 

 

“A l’é col badòla ’d tò frel ch’a l’é drocà e a l’ha z-gnacà la ghitara” 

( e quel balordo di tuo fratello che è caduto ed ha schiacciato la chitarra ). 

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Io non avevo mai visto il volto di Angelo così sconvolto. Le   lacrime   gli   coprivano   le   guance   ed   era   pallidissimo.   Viste   le   sue condizioni, la mamma mi disse di accompagnarlo. Da Piazza Cavour al Collegio dal Pozzo erano sì e no dieci minuti a piedi. 

Il Pasqualon, quando sentì cos’era successo scoppiò in una gran risata. Gli disse di ritornare dopo due giorni. Quella volta però c’era anche la custodia, nera, robusta, a prova di “intontolimenti”  (neologismo della mamma: Tontolini era un attore e regista che produceva film ricolmi di episodi buffi).    

 

Cosa fece Angelo una volta portata a casa la chitarra, come si insegnò da solo i primi accordi, quanto dovette penare per decidere se usare il plettro o le dita, quali furono i suoi primi maestri, quali i metodi e gli spartiti, quando decise di dedicarsi interamente alla composizione e poi alla formazione di giovani concertisti: per raccontare tutto ciò non basterebbero le pagine di un romanzo, ma certamente varrebbe la pena di scriverlo. 

 

Lo   racconterò   in   parte,   a   viva   voce,   al   prossimo   incontro   in memoria del Maestro, insieme ad altri episodi divertenti della vita di questo personaggio davvero straordinario che era mio fratello Angelo.

Quella   sera,   a   cena,   Angelo   ci   annunciò   che   aveva   deciso   di imparare a suonare la chitarra.  Mia mamma perse la pazienza. 

“Ma it ësmija che con tute le gate da plé ch’i l’oma za it debie ’dcò butete ’d grij parèj për la biòca?” (Ma ti sembra che con tutte le gatte da pelare che già abbiamo tu debba metterti dei grilli simili per la testa?)

 

In casa mia mamma ed io abbiamo proprio solo e sempre parlato piemontese. Mio fratello ci rispondeva in italiano, il che faceva indispettire la mamma ancora di più. Ora che ne so qualcosa di psicolinguistica, il perché penso di saperlo, ma allora proprio ci sembrava inspiegabile questo suo pervicace attaccamento alla lingua nazionale. 

 

Parlava molto meno di noi due, ma quando diceva qualcosa era pressoché impossibile fargli cambiare idea. Su questa questione della chitarra doveva averci riflettuto un bel po’ prima di farne l’annuncio “solenne” a noi due. 

 

Io allora non avevo ancora compiuto undici anni e dunque Angelo ne  avrebbe  compiuti   quindici   nel  prossimo   novembre.   Lavorava   duro tutto il giorno presso un ufficio di pubblicità, io frequentavo la prima media dai Salesiani e la mamma cuciva tutto il santo giorno per un laboratorio di maglieria. Io andavo a prendere i pezzi e a riportare il lavoro finito dentro ad una grossa borsa di stoffa. 

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A quali parametri lei confrontasse un prezzo “onesto” ad un prezzo di puro ladrocinio non era chiaro, ma il Belli era ora fuori causa e lo sarebbe rimasto per un bel po’ di anni, anche dopo che mio fratello era già un affermato chitarrista. 

​

Quando la mamma capì che Angelo, che non chiedeva mai nulla per sé e si accontentava di una uscita al cinema ogni due o tre settimane, proprio voleva una chitarra, si mise all’opera e venne a sapere che un certo “Pasqualon” fabbricava a casa sua, in una viuzza che sboccava in via Duomo, proprio davanti all’entrata del collegio Dal Pozzo, chitarre, mandolini, violini, e che altro. 

 

Questa volta la spedizione a tre ebbe esito molto più confortevole per mio fratello. Pasqualon, lombardo (come lo era la mamma, perfettamente “bilingue”, non essendosi mai scordata del suo   natio   dialetto),   si   mise   a   parlare   in   desenzanese   e   mia   mamma rispose con gioia per le rime: veniva lei stessa dai pressi di Desenzano. 

 

Pasqualon, che aveva un cuore d’oro (oltre che le mani, da provetto liutaio), disse a mio fratello di passare di lì a qualche settimana, che gli avrebbe fatto una chitarra degna del nome e non una “fruja” (nome spregiativo con cui ci si riferiva allo stesso strumento nelle osterie, atto ad   accompagnare   le   “canson   vinòire”   e   l’immancabile   fisarmonica).

Quando mio fratello e mia mamma chiesero il prezzo, Pasqualon rispose: “Non preoccupatevi”. A chitarra fatta si accontentò del costo del legno usato per farla: mogano per fasce e fondo, abete per la tavola, ebano per la tastiera: cinquemila  lire,  aggiungendo che  se non li avevano tutte quelle lire, potevano pagarlo a rate. 

 

Finché visse mio fratello gli restò amico e cliente.

Chitarra Giovanni Pasqualon

Disse quelle parole senza sorpresa o emozione. Una mera constatazione di fatto. 

Uscimmo di casa e ci avviammo verso le scale. Poco sopra al secondo piano mio fratello era lungo disteso su qualcosa avvolto in una carta spessa. Non si muoveva. 

 

“It veule ste lì cogià fin che ij giari a ven-o a arzujete jë dlon? Tir-ti sù, ch’i vardoma cò ch’as peul fé”

( Vuoi restartene lì finché i topi vengano a roderti le dita dei piedi? Tirati sù, che guardiamo quel che si può fare). 

 

Il danno era, fortunatamente minimo.   

Il   manico   si   era   leggermente   scollato   all’altezza   della   cassa armonica e poteva facilmente essere riparato. Nessuna crepa nelle fasce, nel fondo e nella tavola armonica. 

 

“Pòrtaj-la andré al Pasqualon e dije ch’at l’ancòla” 

( Portala indietro al Pasualon e digli che la incolli). 

 

E così fece. 

Tontolini
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Foto: ANDREA CHERCHI
 

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